L’uomo nella Nebbia.

La nebbia mi avvolge come un mantello familiare. Non è ostile – è una vecchia amica che ammorbidisce i contorni del mondo, trasforma il quotidiano in qualcosa di straordinario. I miei passi risuonano attutiti sull’asfalto umido, mentre sagome di alberi emergono e svaniscono come pensieri sfuggenti.

Mi fermo. Un lampione diventa una stella velata, la sua luce si diffonde in un alone lattescente. Una panchina emerge dalla foschia, poi un cartello stradale, poi il profilo sfumato di un palazzo – tutto appare con garbo, senza l’aggressività dei contorni netti. La nebbia è gentile: non nasconde, trasforma.

In questa dimensione sospesa, anche i rumori della città cambiano natura. Il rombo del traffico diventa un sussurro distante, i passi dei rari passanti sono echi che raccontano storie incompiute. Tutto rallenta, tutto acquista un peso diverso.

Intorno a me, vedo figure che attraversano questa cortina bianca con passo rapido, testa bassa, come se volessero bucare il velo per raggiungere le luci artificiali dei centri commerciali, il comfort rassicurante degli spazi chiusi. Io scelgo di rallentare, di immergermi in questi momenti in cui il mondo si fa più intimo, in cui ogni passo è una scoperta, ogni sagoma un mistero che non chiede di essere risolto.

La nebbia fisica mi insegna a non temere quella metaforica che porto dentro. Come questa coltre grigia che trasforma la città, anche la confusione interiore può diventare uno spazio di esplorazione. Non serve correre, non serve accendere fari sempre più potenti. Serve camminare, ascoltare, lasciare che le cose si rivelino nel loro tempo.

Mentre procedo nel mio vagabondaggio, scorgo una chiesa: il campanile emerge gradualmente, come un pensiero che prende forma. Un gatto attraversa la strada, la sua figura si dissolve come un ricordo sfocato. Questi incontri soft, questi mezzi riconoscimenti, hanno una poesia che la nitidezza non conosce.

La modernità ci ha convinti che la chiarezza sia tutto, che ogni angolo debba essere illuminato, ogni dubbio dissipato. Ma in questa passeggiata nella nebbia ritrovo il valore dell’indefinito, la bellezza del non completamente visibile. Le vetrine dei negozi, ora velate, perdono il loro potere ipnotico. I cartelloni pubblicitari diventano macchie di colore che non pretendono più di urlarmi cosa dovrei desiderare.

Cammino ancora, e ogni passo è una piccola rivelazione. La nebbia non è un muro, è un filtro che seleziona l’essenziale. Non è assenza, è presenza delicata. Non è perdita di direzione, è invito a trovare nuovi modi di orientarsi.

In questo mondo sfumato, paradossalmente, vedo più chiaro. Vedo come la nostra corsa verso la perfezione tecnica, verso la definizione assoluta di ogni cosa, ci abbia fatto perdere la capacità di apprezzare le sfumature, di abitare l’incertezza, di trovare conforto nel mistero.

La nebbia mi ha insegnato questo: che non tutto deve essere conquistato, che non tutto deve essere posseduto. Alcuni spazi – fuori e dentro di noi – devono restare sfumati, alcune domande devono restare sospese, alcune strade devono restare parzialmente velate. È in questi spazi che respira la nostra umanità più autentica.